Checchino e il Monfortino

di Daniele Cernilli 17/07/17
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Checchino e il Monfortino

È la schizofrenia della critica enogastronomica attuale, da un lato lodatrice, spesso acritica, di chef narcisi e avulsi dalla realtà, dall’altra arcigna sostenitrice della “vera” tradizione enologica.

Chiacchierando con un giornalista, critico enogastronomico di lungo corso, del quale non voglio fare il nome, mi sono trovato ad ascoltare alcune affermazioni che definire contraddittorie è il minimo che si possa fare.

Il discorso verteva sulla considerazione che la critica gastronomica ha attualmente di alcuni ristoranti di cucina tradizionale. Nella fattispecie io gli avevo contestato il fatto che sulla guida alla quale collaborava era stato tolto il ristorante Checchino dal 1887 di Roma, tempio della cucina di Testaccio, inventore della coda alla vaccinara, ed erano stati dati invece punteggi alti a locali della movida di quel quartiere, privi di storia e anche, a mio parere, di reale valore gastronomico. Grandi piatti della tradizione sottovalutati a favore di una cucina apolide e ignara, frutto di fughe in avanti e di fusion improvvisate.

Ovviamente la discussione ha preso toni accesi, e mi sono sentito dire che difendevo visioni “ingessate” della cucina e che rappresentavo una specie di dinosauro della critica. Così imparo a tacere.

Subito dopo, però, la stessa persona ha iniziato a fare una sorta di arringa a favore dei Barolo più classici, Monfortino in testa, criticando aspramente tutti coloro che si distaccavano dalla tradizione più autentica con l’uso di legni nuovi e con sperimentazioni, a suo parere, pregiudizievoli per la vera tipicità di quei vini.

Mi è sembrato di impazzire. Ma come?, mi sono detto, le ricette di Checchino sarebbero “ingessate” e invece il Monfortino è il massimo della vita? Intendiamoci, il Monfortino è un vino immenso, ma coerenza vorrebbe che quel giudizio, che condivido e sottoscrivo, poi valga anche per tutto ciò che è autenticamente tradizionale, che possiede una valenza di cultura materiale oltre che organolettica, e dentro ci sta anche la coda alla vaccinara di Checchino, lo stinco di Josko Sirk della Subida di Cormons, o gli “Schlutzkrapfen” di Patscheiderhof sul Renon, a Bolzano, tanto per fare altri esempi.

È la schizofrenia della critica enogastronomica attuale, da un lato lodatrice, spesso acritica, di chef narcisi e avulsi dalla realtà, dall’altra arcigna sostenitrice della “vera” tradizione enologica.

Se ci capite qualcosa fatemi un fischio.





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