Gli enofighetti
Finito il trittico degli editoriali “gastronomici” ritorniamo a temi più consoni per DoctorWine, ma non per questo meno deleteri. Arrivato al compimento del sessantaduesimo anno, non sono ancora decrepito ma neanche un giovincello e se a questo ci si aggiunge che da quasi quaranta mi occupo del mondo del vino si può dire che ne ho viste davvero di tutti i colori. Una cosa però non riesco proprio a capirla ed è il mondo dei cosiddetti “enofighetti” che sono un fenomeno abbastanza recente.
Quando ho iniziato, alla fine degli anni Settanta, gli appassionati di vino erano pochi e la pratica più comune era la passione per la scoperta di nuove zone, di nuovi produttori, di vini “piccoli” e non necessariamente costosi. Una visione da talent scout, mediata dagli scritti di Veronelli e di Soldati che questo avevano fatto e facevano. Andavamo pazzi per il Grignolino di Accornero, per il Dolcetto di Chionetti, per il Chianti La Querce, per i vini del Salento di Cosimo Taurino o per il Rosso della Madonna Isabella dell’Oltrepò. Tutti pressoché sconosciuti, tutti con prezzi ragionevoli, “democratici” e che persino degli squattrinati studenti potevano di tanto in tanto permettersi di bere, per quanto mi riguardava ai tavoli del Cul de Sac di Piazza Pasquino, a Roma, che era e resta un luogo mitico.
A quattro decenni di distanza le cose per un certo genere di appassionati sono cambiate drasticamente. Colpiti improvvisamente dal morbo della “borgognite cronica” non sopportano di bere altro che non siano i grandi rossi da uve pinot nero di alcuni comuni della Cote d’Or, qualche Riesling della Mosella (già la Rheingau è vista con sospetto), Champagne solo dei récoltànt, meglio se biodinamici e, per il mondo italico, soltanto Langhe, un po’ di Nord Piemonte, poi Valle Isarco e forse alcuni minuscoli viticoltori dell’Etna, con vigne rigorosamente sopra i mille metri, però. Più si va a sud, meno si trova eleganza, i vigneti del Nuovo Mondo andrebbero estirpati, di Bordeaux se ne può fare a meno, tutto l’universo “sangiovesista” si salva esclusivamente in pochissimi casi, ma rappresenta comunque una buona serie B, e non parliamo neanche dei vini pesanti e alcolici del Collio.
Non sto scherzando. Seguendo ciò che avviene in parti della rete e avendo partecipato (ma giuro che non lo farò più) ad alcuni incontri molto ma molto carbonari in tal senso, posso affermare che esistono parecchie persone che considerano il vino in questo modo così insopportabilmente elitario, tanto da scadere nel ridicolo. La maggior parte di costoro, tra l’altro, non capiscono che mentre sono impegnati nel riconfermare le loro certezze, il resto del mondo parla d’altro e beve altro.
Brunello e Amarone sono i grandi rossi italiani di maggior successo, il Prosecco scorre a fiumi ovunque, il Sud progredisce di continuo, e se c’è un primato enologico per il nostro Paese, come ho già avuto modo di sottolineare, è proprio nella varietà di vitigni e di vini locali, spesso vere gemme sconosciute ai più, che formano una ricchissima costellazione di straordinario valore. Basta uscire da quel mondo asfittico e autoreferenziale di persone senza curiosità, coloro che vivono il vino come un modo per sentirsi “un sacco fighi”, per rendersi conto di cosa in realtà offra questo mondo.