Gaiospino, le montagne russe del Verdicchio (1)
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Lucio Canestrari scioglie l’ironia nel discorso anche quando parla di concimi. E prende tutto con leggerezza, da buon romano de Roma. Tifoso della Lazio, "perché essere laziali significa essere egregi, ovvero, etimologicamente, ‘fuori dal gregge’", rifugiato nelle campagne di Staffolo, cuore dei Castelli di Jesi, "perché a Roma dove ti giri ce stanno solo case e auto", nipote e figlio di ristoratori: i suoi aprirono un locale nel 1925 in zona viale Mazzini, prima dell’avvento della RAI, "che ancora mi ricordo quando la costruirono".
Dopo il servizio militare, la svolta: la fuga dalla città in direzione campagna, a provare a vivere del proprio lavoro. Lucio prende in mano il casolare comprato dal padre a Staffolo, in contrada Coroncino, nella riva destra dell’Esino, e decide di fare vino, con dieci ettari di vigneto.
Quasi tutto verdicchio.
Il vino, ma non come missione, né come passione bruciante. "In realtà volevo un prodotto che mi permettesse di campare autonomamente, senza troppe aspirazioni. Anche se un prodotto agricolo è un prodotto agricolo, il vino invece è un di più", dice senza cinismo, ma con la consapevolezza - tutta capitolina - che le persone hanno possibilità limitate, e più di quello ‘nun se po fà.
‘'Ndo arivo metto 'nsegno’, recitano le retroetichette delle bottiglie Coroncino. Non a caso.
Lucio arriva in quella che sarebbe diventata la principale zona vinicola delle Marche a metà degli anni Ottanta. Da allora è diventato al contempo una cima del Verdicchio e un guru della viticoltura naturale, qualsiasi cosa l’aggettivo significhi.
La produzione è esigua e un po’ frammentata, con una gamma che propone anche un Verdicchio fermentato in barrique nuove, chiamato Gaiospino Fumé, che impiega parecchio tempo a liberarsi dalle note di rovere; un rosso che non abbiamo mai assaggiato; e un passito fatto sempre con verdicchio, dolcissimo, di notevole interesse, denominato Bambulè; spiccano le due selezioni: il Coroncino e il Gaiospino (ne parliamo domani).
Doctorwine: Come è cambiato il Verdicchio dal tuo arrivo nelle Marche?
Lucio Canestrari: Parecchio, e in meglio. Merito del lavoro dei piccoli produttori, e anche di alcuni ristoratori. Moreno Cedroni (chef due stelle Michelin della Madonnina del Pescatore di Senigallia, ndr) ha creduto subito in me, utilizzando il mio Verdicchio come vino della casa per anni. Andavo spesso a portargli il vino. Ogni scusa era ‘bbona pe annà a magnà la ricciola alla Madonnina! Subito dopo arrivarono Guido di Costigliole e Aimo e Nadia di Milano.
DW: E la politica?
LC: L’eliminazione alla fine degli anni Ottanta della denominazione Verdicchio delle Marche, che era una denominazione di ricaduta e al contempo un escamotage per aggirare il tetto produttivo fu una manna dal cielo. Perfetta per le grandi produzioni industriali, ma una palla al piede per i piccoli produttori che volevano fare qualità.
DW: Produzioni industriali?
LC: Per approccio industriale intendo approccio ‘economico’, il prevedere tramite calcoli il guadagno che vorrò ottenere indipendentemente dall’annata. E l’attrezzare vigna e cantina in tale univoca direzione. All’opposto c’è l’approccio che definirei ‘familiare’.
DW: Tutto si riduce a una questione di calcoli e di dimensioni aziendali?
LC: Assolutamente no: dipende da quello che vuoi fare col tuo vino, cosa vuoi trasmettere. Io voglio trasmettere l’origine del luogo dal quale proviene il mio vino. Il vitigno conta, certamente, ma la terra sulla quale vive conta altrettanto. Soprattutto il nutrimento che le dai.
DW: Insomma i concimi sono decisivi
LC: Sono il nutrimento delle piante. Se do loro un nutrimento che proviene da fuori, uniformato, le piante non riusciranno a trasmette il senso del luogo. Ma il discorso è più ampio.
DW: Cioè?
LC: Le denominazioni di origine vogliono tutelare l’espressione di un luogo. Benissimo, io ce credo. Di conseguenza la tecnica, che ha una forza uniformatrice ineludibile, in un certo senso è contraria alle denominazioni di origine. Che senso ha parlare di denominazione di origine se poi l’origine non la sento? Fondamentale dunque non utilizzare concimi ‘tecnici’, esterni alla azienda, che tendono a uniformare moltissimo il gusto. Altro che legni nuovi.
DW: E la solforosa? A volte i tuoi bianchi sembrano scontarne una certa carenza.
LC: Guarda, io a mette più di 50, 60 milligrammi litro proprio nun ce riesco. È più forte di me. Ma parto prima con l’iperossidazione volontaria dei mosti: quello che c’è da ossidare lo faccio a monte, in modo tale da non avere problemi in seguito.
DW: La solforosa nei bianchi da invecchiamento serve soprattutto a tenere a bada l’ossigeno, impedendo la formazione di aldeidi. Non pensi che anche le aldeidi siano pesantemente uniformanti, alla pari di un concime ‘industriale’?
LC: Mah! Non lo so. Ma in futuro è una cosa che prenderò in considerazione.