Clima e viticoltura sostenibile
I cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti e sono inevitabili, occorre affrontare con coraggio le sfide che ci lanciano.
Lo scorso 28 marzo, a Roma presso la sede della Confcooperative, si è svolto un convegno che definire importante è davvero poco. Strano che ci fossero quasi esclusivamente esponenti della stampa cosiddetta “generalista” e quasi nessuno di chi si occupa di vino in modo specifico.
Ma la faccio breve. I presidenti delle associazioni delle cooperative vitivinicole di Italia, Spagna e Francia, Ruenza Santandrea, Angel Villafranca e Boris Calmette, in rappresentanza di 320.000 viticoltori che producono il 25% del vino del mondo, hanno raccontato cosa sta succedendo nelle vigne dei loro associati, cosa accade in relazione agli evidenti cambiamenti climatici e quali sono i probabili scenari che ci troveremo a dover affrontare nei prossimi anni.
Il tutto dopo un’introduzione di Luca Mercalli, meteorologo di fama internazionale, che ha spiegato come gli accordi di Parigi saranno prevedibilmente disattesi e che dobbiamo aspettarci eventi estremi nel clima già nei prossimi dieci anni e non chissà quando. Scenari impressionanti, con desertificazione di ampie zone, soprattutto in Spagna, in Grecia e da noi. Tutta la Sicilia meridionale, gran parte della Puglia, potrebbero diventare deserti in pochi decenni, città come Torino e Milano potrebbero avere nell’arco di mezzo secolo lo stesso clima che oggi c’è a Karachi, con temperature estive che potrebbero raggiungere e superare i 50 gradi e piovosità in netta diminuzione.
In viticoltura le previsioni sono che i vigneti dovranno elevarsi in media di 250 metri sul livello del mare e che si sposteranno a nord di almeno 200 chilometri rispetto ad oggi. Un disastro annunciato, che si prevede da oltre vent’anni ma che non ha la minima possibilità di essere evitato stando così le cose a livello di politica internazionale.
La domanda da porsi è cosa fare, in agricoltura e in viticoltura innanzi tutto, visto che quello era il tema. La risposta è quella che hanno dato i professoriAttilio Scienza e Michele Morgante, rispettivamente delle Università di Milano e di Udine, e sta nell’intervento sulla genetica delle viti, in modo da rendere le varietà più adatte alle prossime situazioni climatiche, pena il dover rinunciare alla viticoltura. Portainnesti che necessitano di meno acqua, varietà modificate attraverso la cisgenetica e altre tecnologie per il miglioramento genetico delle piante, che sarebbero inoltre più resistenti ad agenti patogeni quali oidio, peronospora e botrytis, arrivando ad evitare l’80% circa dei trattamenti chimici in campo.
Una rivoluzione, che però trova molti ostacoli, soprattutto nel settore viticolo, dove gli interventi di carattere genetico vengono visti da alcune parti come attentati alla tradizione, per il valore simbolico che il vino possiede nell’immaginario collettivo.
Il paragone che viene in mente è quello fra un’auto Tesla, elettrica, e una splendida Isotta Fraschini di un secolo fa. Meravigliosa la seconda, che ha anche un suo mercato, per appassionati e ricchissimi collezionisti. Ma inquinerebbe di più, andrebbe più piano, sarebbe meno sicura per i passeggeri. La Tesla è meno bella, infinitamente più pratica, efficiente, sicura e adatta per la vita moderna. Non sarebbe esistita senza l’Isotta Fraschini, e in qualche modo ne è l’evoluzione contemporanea. Ma le auto, e anche gran parte dell’agricoltura, non hanno quel valore di simbolo della tradizione che possiedono invece il vino e la viticoltura, e le resistenze alle innovazioni sono fortissime.
Allora dobbiamo chiederci concretamente se vale la pena continuare a combattere una battaglia che sarà sicuramente persa, affondando con la nave e con il proprio onore, o se invece non sia il caso di aprire gli occhi e di affrontare con coraggio le sfide che i cambiamenti climatici, che appaiono inevitabili, ci lanciano e che sono ormai sotto gli occhi di tutti.