Évin: chi era costui? Il cavallo di Troia

di Paolo Valdastri 16/10/23
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vino dealcolato

Commenti a margine del convegno “Il vino italiano protagonista dell’agroalimentare del mondo, 27 settembre 2023, organizzato da Nomisma, Agronetwork e Confagricoltura al Castello di Nipozzano e ospitato dai marchesi Frescobaldi. 

Notizie confortanti sullo stato di salute del commercio del vino italiano. La ricerca Nomisma “Il vino italiano nel mondo. Trend, posizionamento e prospettive” parla di un comparto in salute che registra una performance del +68% nell’export globale dal 2012 al 2022 e un aumento da 4,7 a 7,8 MLD € per lo stesso periodo. Il peso del vino sul totale dell’export agroalimentare è pari al 13% e questo grazie al contributo di tutte le regioni italiane a dimostrazione di una vasta e attraente diversità di proposte. I dati meno rassicuranti del primo trimestre 2023 preoccupano solo parzialmente in quanto attribuibili a fattori contingenti su scala mondiale.

Quello che invece preoccupa di più è un attento esame delle tendenze del mercato, soprattutto se riferite alle nuove generazioni, in particolare alla Z. Tendenze come la ricerca di vino biologico o biodinamico, la grande attenzione alla sostenibilità, oppure a dettagli ed abitudini di consumo come l’aumento dell’off-premise per i bianchi, sono fenomeni che si possono governare con una certa facilità.

I punti critici sono altri. Di questi, due sono messi in evidenza da Federico Castellucci, Confagricoltura, e sono la richiesta di vini no oppure low alcol (no-lo) e di vini adatti alla mixology. Un altro punto critico riguarda, secondo Lamberto Frescobaldi, il processo di meccanizzazione e la mancanza cronica di mano d’opera assommata allo scarso peso politico generale del mondo agricolo.

Il peggio però è altrove e, a mio parere, non si sta lavorando abbastanza per contrastarlo. Nella ricerca si accenna all’incremento della richiesta di vini no alcol, ci si meraviglia per questo fenomeno, si discute sul chiamare o meno questo prodotto “vino”, ma non si parla delle potentissime lobby dell’analcolico che stanno cercando di scavare la fossa al consumo del vino con la scusa della salute. Cosa c’è infatti dietro alle etichette del tipo Nutriscore o a quelle recentemente introdotte dall’Irlanda per il vino? Daniele Cernilli, nel suo articolo “Il cavallo di Troia” parla di complottismo e di attacco al vino con la scusa dei motivi salutistici: ma certo! Chiamiamo le cose con il proprio nome! Ossia: LOBBYING!

Negli anni ’90 del secolo scorso mi ero avvicinato al mondo dei Master of Wine. La prima domanda che mi fecero, fu: “Mi parli della loi (legge, ndr) Évin”. Évin: chi era costui? Conoscevo molto meglio Carneade, ma non ero il solo. Di tutti i colleghi ai quali ho rivolto la stessa domanda nessuno ha saputo dare una risposta. Ebbene la legge Évin del 1992 è la legge che in Francia ha stabilito il divieto di pubblicizzare con qualsiasi mezzo i prodotti alcolici, a cominciare dal vino. E subito dopo, sempre in Francia poi in seguito in tutta Europa, ha tentato e sta tentando di cancellare tutti i finanziamenti alla promozione del vino e ha dato vita ai limiti alcolici nel sangue, agli etilometri e relative conseguenze. 

Così noi consumatori abitudinali di vino ci siamo ritrovati a temere pene infernali solo per aver bevuto un bicchiere di vino, mentre il consumo di superalcolici e droghe varie continua ad aumentare indisturbato nei locali notturni di tutto il mondo. Trovai discutibile quella legge e volli indagare per capire a chi giovava. Principali promotori erano le associazioni antialcoliste del momento. Riuscii a trovare i loro bilanci allora disponibili in chiaro sulla rete e scoprii che uno dei maggiori finanziatori era una famosissima multinazionale del beverage analcolico. Oggi la legge ha compiuto i 30 anni, le associazioni antialcoliste sono alla terza generazione, con Addictions France in testa, ma i bilanci non sono più in chiaro e si parla in generale di sussidi che per il 2023 sono pari a 19.112.640€ di cui circa 3.300.000€ di provenienza privata. Intanto la lotta all’alcolismo si trasforma sempre di più in attacco al vino e l’episodio del provvedimento irlandese sembra solo essere una prova di forza delle truppe analcoliche in attesa di allargare l’esperimento nella maniera più ampia possibile. 

Abbiamo accennato alle lobby. Anche il presidente Macron, nel difendere le industrie dell’alcol promettendo che la loi Évin non sarebbe stata modificata per limitare ulteriormente le azioni legali di marketing in Francia, si è preso una bella accusa di lobbismo. (The Regulation of Alcohol Marketing in France: The Loi Evin at Thirty. Marine Friant-Perrot1 and Amandine Garde2 1: UNIVERSITY OF NANTES, FRANCE, 2: UNIVERSITY OF LIVERPOOL, UNITED KINGDOM)

Il lobbying, nato negli Stati Uniti, è definito come “il tentativo di individui o gruppi di interessi a influenzare le decisioni di governo”. Dopo Washington, Bruxelles è la seconda capitale del lobbying in quanto luogo vicino alle maggiori istituzioni europee. Questa attività è stata regolamentata dal Consiglio Europeo mel 2021 rendendo obbligatoria l’iscrizione dei rappresentanti d’interesse ad un “Registro per la trasparenza”, subordinandola a un codice di condotta e all’obbligo per i parlamentari di pubblicare gli incontri. L’Italia non ha invece una legislazione in materia di lobbying, attività che non gode di una buona fama a causa di deviazioni nella recente storia nazionale. Nonostante questo le società di lobbying esistono ed esiste un disegno di legge del 2022 che tende a creare una lobby regulation a livello nazionale. 

In conclusione: l’attività di lobbying vive ed è attuata in maniera molto invasiva da aziende farmaceutiche, dai colossi industriali della chimica, dell’agroalimentare, del beverage, dai collettivi ambientali ed è gestita su scala globale con ingenti investimenti. Di fronte a questo fenomeno il mondo del vino italiano è completamente assente, è fortemente diviso e distratto dalle competizioni interne, e non si pensa neppure lontanamente ad una possibile azione di contrasto usando gli stessi mezzi. (*)

L’Impero Analcolico ci sta indirizzando verso il vino dealcolato e qui è nato l’ultimo problema: chiamarlo vino oppure no?

Prima di tutto voglio ricordare che la richiesta di vino senz’alcol è nata prima della moda no-lo ed è nata sostanzialmente per motivi religiosi. Nel 2015 ho partecipato a Vinitaly Sol&Agrifood con un’azienda olearia toscana. Ricevemmo in visita un cliente iraniano che, prima di congedarsi, mi chiese un consiglio su dove e quali vini analcolici poteva assaggiare in fiera. Non mi stupii perché sono abituato ai punti vendita inglesi, dove questo prodotto è comunemente reperibile, al pari degli champagne bianchi e degli champagne blu, ma fui spiazzato dal fatto che in Italia questo prodotto era pressoché introvabile. Pensando al mercato musulmano, una produzione di vino analcolico appare tutt’altro che un’idea peregrina. Ora all’aspetto religioso si aggiunge anche la moda

La ricerca di Nomisma conclude che il mercato privilegia sempre più i prodotti biologici e (soprattutto) sostenibili, con grande attenzione da parte delle nuove generazioni al basso tasso alcolico, alla semplicità di beva e alla mixabilità. Castellucci afferma: “occorre assecondare la produzione di vino dealcolato, come è successo per la birra analcolica”. Ad aggravare il quadro interviene anche la Gran Bretagna dove il governo Sunak ha varato la riforma delle accise che penalizza fortemente il vino fermo, anche se salva le bollicine. 

La lobby analcolica sembra guadagnare velocemente terreno. Cosa devono fare allora i nostri produttori?

Chi fa vino di alta gamma o da collezione non corre grandi rischi, si rivolge a un pubblico ristretto, colto, evoluto, appassionato oppure a nuovi ricchi con altissime possibilità di spesa, categoria che sembra in continuo aumento. Chi fa vino territoriale deve contare su di un’alta preparazione culturale del consumatore che certamente lo porterà a scartare prodotti industriali. Qui siamo nel settore dei piccoli e medi produttori e sarà fondamentale il ricorso alla collaborazione e all’associazionismo.

Per il resto: entriamo nell’universo del vino industriale dove si parla di quantità importanti e di qualità solo apparente. I giganti analcolici sono molto ben attrezzati in questo campo. Ma l'obiezione che i produttori di vino non hanno pari capacità non mi convince del tutto. Conosco molti commercianti di sfuso, molti anche di dimensioni non colossali, che dispongono di filtri tangenziali da diverse centinaia di migliaia di euro, per cui convertirsi a una linea di dealcolazione non dovrebbe costituire un problema insormontabile. L’osmosi inversa o la “perestrazione”, con i cambiamenti climatici in atto, sono processi molto più familiari di quanto si creda. Ci sono modelli di macchinari in grado di consentire la scelta tra 10,20,50, 100 e 200 litri/ora di alcol estratto. Forse il problema riguarda più il marketing, settore nel quale i nostri produttori non sono proprio ai vertici di eccellenza. Ma ci si può fare.

Da qui discende il dubbio amletico: dobbiamo continuare a parlare di “VINO” o di “NON VINO”? 

Secondo la legge il vino è definito come “il prodotto ottenuto esclusivamente dalla fermentazione alcolica, totale o parziale, di uve fresche, pigiate o meno, o di mosti di uve con gradazione alcolica non inferiore ai  tre quinti della gradazione complessiva”. Un tentativo di diminuire la gradazione alcolica è stato fatto dall’Unione Europea nel 2021, e si è tentato addirittura di introdurre la possibilità di aggiungere acqua al vino. Il provvedimento che consentirebbe di chiamare vino anche prodotti con gradazione inferiore agli 8 o 9 gradi deve ancora essere ratificato dai vari governi ed è qui che entrerà in gioco il lavoro di lobbying con la nuova riforma della PAC. E comunque non prescinde dall’obbligo di partire dalla materia prima UVA.

C’è chi ritiene che il mantenimento della parola vino anche a zero alcol favorirebbe la lobby del beverage, a causa della struttura già collaudata da parte dell’industria di produzione di bevande analcoliche e gasate e alle relative pratiche di marketing adottate. A mio parere la cosa non è così scontata. Abolendo la parola vino si disincentiverebbero tutti i produttori di vino a rimanere presenti in questo settore che invece sembra avere grandi prospettive di sviluppo anche economico. Recuperare tutto il mercato islamico e anche quello degli astemi di professione significherebbe attivare un giro di affari a molti zeri.  Abolire la parola vino, invece, significherebbe rendere non appetibile l’affare per nessuno, né per la lobby alcolica né per la lobby analcolica. 

Mantenere la parola vino, collegata al fatto che il prodotto sia comunque derivato dalla fermentazione dell’uva, costringe il produttore, alcolico o analcolico che sia, a partire da questa materia base. L’industria del beverage sarebbe costretta a piantare vigneti (ipotesi improbabile) o approvvigionarsi da produttori di sfuso contribuendo a rilanciare con forza la produzione di vino non imbottigliato e a diminuire le eccedenze. Quest’anno la Francia ha dovuto investire 57 milioni di euro nell’espianto di 9.500 ettari di vigneto a Bordeaux. Episodi simili si sono verificati in Australia. E se quei soldi fossero stati impiegati per la produzione di vino dealcolato destinato ai 17 paesi musulmani (dall’Arabia Saudita agli Emirati, a parte dell’India, Indonesia, e via dicendo) dove vige il divieto di consumo di bevande alcoliche? 

(*) A questo riguardo si potrebbe anche citare il caso dei cereali, dal mais e dai grani geneticamente modificati, del mais reso sterile per poter vendere annualmente il seme, dei grani irradiati con raggi gamma, della presenza di glifosato nei grani importati dal Canada. Chi è che convince il giornalista di turno Alessandro Trocino a dire elegantemente: “allora libero da sensi di colpa gridi: c’avete rotto il cazzo voi e i grani antichi» (così nell’articolo).? Oppure lo scrittore Luigi Cattivelli in “Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie” a sostenere: “Viene infatti dimostrato che l’associazione tra frumenti moderni, mutagenesi e radiazioni, utilizzate per indurre le mutazioni, è qualcosa di cui si trova menzione solo in siti non propriamente “scientifici”? Tanto non scientifici che in quindici minuti di ricerca ho scaricato 18 ricerche universitarie del tipo: “Gamma radiosensitivity study on wheat (Triticum turgidum ssp. durum)” De Gruyter Open Agricolture 2020.

Un caso di negazionismo molto preoccupante che la dice lunga sull’influenza attiva delle lobby di riferimento. Ogni riferimento alla Monsanto non è affatto casuale.

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