I miei primi 40 anni nel vino

di Daniele Cernilli 19/11/18
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I miei primi 40 anni nel vino

Quarant’anni fa Daniele Cernilli muoveva i suoi primi passi nel mondo del vino quindi è un testimone oculare della storia enologica del nostro Paese.

Parafrasando il titolo del libro di Marina Ripa di Meana, e ricordandola con simpatia a un anno circa dalla sua scomparsa, vorrei fare una piccola raccolta di ricordi e di considerazioni su questo ormai lungo percorso che mi è capitato di fare nel mondo del vino. Perché con la fine del 2018 compirò quarant’anni “vinosi”.

La mia prima tessera dell’Associazione Italiana Sommelier, e il mio primo corso sul vino, datano 1979, ma già da diversi mesi mi avvicinavo con curiosità ai misteri enoici, e quindi i quattro decenni ci stanno tutti. I luoghi di “esercizio” della pratica degustatoria erano i primi wine bar di Roma, il Cul de Sac in piazza Pasquino e la Cavour 313, appunto in via Cavour. Poi i ristoranti Severino a piazza Zama e Checchino dal 1887 a Testaccio. Infine c’era la lettura di riviste come Vini & liquori, diretta da Veronelli, che non esiste più, e di Civiltà del Bere che invece esiste ancora ed è se possibile ancora più interessante di allora.

Era un’epoca pionieristica per i vini di qualità, i produttori erano relativamente pochi, alcune zone stavano nascendo realmente in quegli anni. Di cantine a Montalcino ce n’erano una ventina, e oggi sono più di duecento, tanto per fare un esempio. In Franciacorta ce n’erano quattro o cinque, in Langa di più, e all’epoca i Barolo boys erano di là da venire. Le informazioni giravano con difficoltà e solo Veronelli aveva una reale capacità d’incidere al di là del mondo degli addetti ai lavori.

La quantità di vini sfusi era molto ampia, molti bianchi erano inconsapevolmente orange, soprattutto nel centro-sud, e gli enotecnici diplomati a Conegliano iniziavano a “imbiancare” i mosti un po’ dappertutto. Livio Jannattoni, grande scrittore di cose romane e bevitore di vini sfusi dei Castelli, tuonava contro le mode “moderniste”. Io scrissi un pezzo, uno dei primi in assoluto, su una rivista friulana, Il Vino, diretta da Isi Benini, dedicandola al Marino Colle Picchioni di Paola Di Mauro che era ancora orange, vinificato con le bucce, e ci mancò poco che mi linciassero. Tradizione e modernità erano già temi discussi, ma con pesi opposti rispetto a ciò che passa oggi. Gli esordi furono quelli.

Milano era il centro del mondo del vino italiano, con grandi enoteche, quella dei Solci su tutte, con Marchesi e Santin, con Veronelli, l’Ais di Marchi e Piccinardi, con Franco Colombani mitico presidente. Noi romani eravamo uno sparuto gruppo di appassionati pionieristi e un po’ ingenui. In Toscana Piero Antinori stava rinnovando il mondo chiantigiano, Maurizio Zanella s’inventava i Franciacorta, che allora si potevano ancora chiamare “spumanti”, e Angelo Gaja, Giacomo Bologna e Bruno Giacosa erano le star del Piemonte. Mario Schiopetto e Vittorio Puiatti, l’un contro l’altro armati, erano i campioni dei vini friulani, insieme a Livio e a Marco Felluga. Silvio Jermann aveva appena lanciato il suo Vintage Tunina che sconvolgeva la visione dei bianchi “varietali” ma recuperava la tradizione più autentica in Collio.

A sud della Toscana c’era poco o nulla. Edoardo Valentini, Emidio Pepe, i Leone de Castris, i Mastroberardino. In Sicilia Tasca d’Almerita, lanciato da un uomo scomparso prematuramente da molti anni, Ignazio Miceli, una delle più brillanti menti del mondo del vino di allora. Marco De Bartoli faceva una fatica improba a fare apprezzare il suo Vecchio Samperi, e noi “giovani” tifavamo per lui.

Quarant’anni fa.

Poi è accaduto di tutto. Dal metanolo al Gambero Rosso, a Slow Food, alle guide, alla diaspora sommelieristica, alla crisi del cartaceo, al web, ai siti di vendita on line, alla nascita dei “cuochistar” che stanno più in televisione e sui social che in cucina.

I produttori sono venti volte quelli che c’erano allora, molte zone di produzione sono diventate famosissime. L’Alto Adige, l’Etna, Bolgheri, Montefalco. Le filosofie produttive sono divenute argomenti di discussione, talvolta di marketing. C’è stata l’ascesa e la caduta delle barrique. Tenere saldo il timone è diventato difficile. Più semplice schierarsi, diventare tifoso di quello o di quell’altro punto di vista, far parte di una tribù enologica con forti convinzioni. Ma non è anche quello che accade in altri campi, in fin dei conti? Un segno dei tempi?

Ecco, in tutto questo tempo forse una cosa credo di averla capita. A volte il mondo dei vino si considera un po’ come qualcosa di troppo specifico, e rischia di cadere nell’autoreferenzialità. Non è invece un mondo a parte e vive, e subisce, e interagisce con tutto il resto. È una sfida che bisogna accettare e affrontare, pena il fatto di essere sempre meno compresi da un pubblico che non necessariamente ha voglia di entrare nei meandri del tecnicismo o delle filosofie esoteriche. Farsi capire e farsi apprezzare con sorridente leggerezza è e sarà fondamentale, la divulgazione è e sarà più importante degli aspetti organolettici, la condivisione è e sarà decisiva. Pochi punti per il vino del futuro e per i miei prossimi quarant’anni…..





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