Avventure in Chianti Classico: il prence vignaiolo

“Daniele, senti, bisognerebbe andare a trovare Alceo di Napoli, sai? Sulla guida dei vini è stato scritto che bere oggi il Sammarco 1983 è come commettere un infanticidio e lui si è parecchio offeso. Mi dispiace, perchéè veramente un galantuomo”. Chi mi telefonava nell’aprile del 1988 era nientemeno che Giacomo Tachis che aveva fatto da paciere, ma che mi chiedeva una cosa precisa. “Mi dispiace, Giacomo” risposi “ma quella scheda non l’ho scritta io, quell’espressione un po’ forte mi dev’essere sfuggita durante la correzione delle bozze. Ha ragione il principe di Napoli, è decisamente infelice. Lunedì prossimo ho il giorno libero a scuola (Cernilli all'epoca ancora insegnava ndr.), prendo la macchina e arrivo”.
Il lunedì successivo andai, sfidando una giornata che di primaverile non aveva proprio nulla e sbagliando persino strada. Mi presentai alla trattoria di Montagliari, dal mitico e indimenticabile Giovanni “Minuccio” Cappelli, oste e viticoltore di razza, con più di un’ora di ritardo. Non c’erano i cellulari allora e non riuscii ad avvertire, perciò mi ritrovai con Tachis imbarazzatissimo ed Alceo di Napoli che letteralmente schiumava per la rabbia. Un esordio catastrofico, insomma.
Ma forse molti di voi, magari i più giovani, chi era Alceo non lo sanno. Va perciò fatto un passo indietro. I principi di Napoli possiedono tuttora il Castello dei Rampolla a Panzano in Chianti, una decina di chilometri a sud di Greve. L’ultimo avamposto del Chianti Classico fiorentino, dato che a pochi chilometri da lì, a Lucarelli, c’è il confine con il comune di Radda e con la provincia di Siena.
Il Castello domina la cosiddetta Conca d’Oro di Panzano e circa 42 ettari di vigneto che si adagiano proprio davanti ed intorno ad esso. Oggi se ne occupano Luca e Maurizia di Napoli, figli di Alceo, che è scomparso nel 1991, ma all’epoca, e dal 1975 almeno, era stato proprio quest’ultimo ad iniziare una produzione vitivinicola di ottimo livello, dedicando oltretutto il vino più prestigioso della cantina a suo figlio Marco, prematuramente mancato alcuni anni prima. Il Sammarco, appunto, quello definito come “infanticidio”. Così avete tutto il mosaico completo e potete comprendere anche quali fossero i motivi profondi per la pesante arrabbiatura del prence. Come lo chiamava il Cappelli.
“Scusate, ho sbagliato strada ed ho fatto quaranta chilometri di curve in più” balbettai. Alceo mi squadrò con uno sguardo severissimo. Aveva occhi grandi, quasi grigi, e mi disse “Guardi, io sono qui solo perché me lo ha chiesto Tachis, se fosse stato per me potevate andare all’inferno. 'Sta cosa dell’infanticidio non si può sentire. Ma vi rendete conto di quello che scrivete? Avete idea di che cosa di orribile sia un infanticidio? large Come si può definire un vino con un aggettivo delgenere...Vergognatevi!”. Era romano Alceo, quando perdeva le staffe il dialetto veniva fuori. Mi scusai, gli dissi che era un infelice modo di dire un po’ giovanilistico e lentamente, anche tirando in ballo le comuni origini (sapevo oltretutto che i di Napoli erano proprietari di Palazzo Altieri a Roma) e molto per il ruolo pacificatore di Tachis, le cose si stemperarono. Non riuscii a mangiare quasi nulla, ovviamente.
“Ora andiamo in cantina, così le faccio vedere come lavoriamo”, disse ad un certo punto. E raggiungemmo la cantina. Essenziale, quasi spartana, com’era del resto la vita del prence vignaiolo, che non aveva calli sulle mani, ma conduceva un’esistenza semplice e priva dei lussi che la sua ascendenza avrebbe potuto concedergli. Parlò delle sue convinzioni viticole ed enologiche, esprimendo concetti davvero singolari. “Non amo il sangiovese, non lo trovo un vitigno per vini davvero importanti e longevi. La vigna che sto piantando ora (sarebbe stata la vigna d’Alceo e avrebbe dato il nome al vino omonimo ndr) ha solo cabernet sauvignon”. “Eppure ho assaggiato di recente un ottimo vino a base sangiovese, il Concerto di Fonterutoli, mi pare lo vinifichi Giulio Gambelli...” replicai. “Quella è roba di Siepi, a Castellina. Lì tutt’al più possono fare vini da taglio” sentenziò. E Tachis, difendendomi, “Scusa Alceo, ma tu quando tagli un vino lo fai per farlo diventare più cattivo o più buono?” Fece finta di non avere sentito, e proseguì. “Abbiamo appena messo in bottiglia l’annata ’86 di Sammarco, ora ve lo faccio assaggiare”. Aveva anche un po’ di sangiovese, il 20%, non di più. Ma non era il sangiovese di oggi. Non c’erano stati studi e selezioni, il progetto Chianti Classico 2000 non esisteva ancora e i vecchi cloni davano vini “con le zampe gialle” come diceva Tachis.
Chissà se oggi Alceo avrebbe cambiato idea? Difficile, visto l’uomo, ma non impossibile. Più si andava avanti a parlare, ad assaggiare (tra l’altro il Sammarco ’86 era veramente straordinario), più quello sguardo severo diventava sempre più rilassato, i toni della voce più cordiali e confidenziali. Finimmo quel giorno con abbracci e promesse di rivederci presto, con Tachis che gongolava per aver svolto alla perfezione il suo ruolo.
Lo avrei rivisto altre volte, poche purtroppo, perché appena tre anni dopo, nell’aprile del 1991, ad appena 66 anni, Alceo di Napoli ci lasciò. Voglio immaginare che il Padre Eterno gli abbia affidato qualche vigneto in cielo da coltivare per fare un vino straordinario. Lui avrà borbottato qualcosa, ma poi si sarà messo a lavorare con la passione e il perfezionismo che facevano parte del suo carattere e che gli donavano un carisma fortissimo e antico. E magari quel vino me lo farà bere fra qualche anno, quando spero di raggiungerlo e di parlare ancora a lungo con lui.