Sangue di rana
La terminologia del vino è uno degli aspetti più ostici da affrontare per chi è alle prime armi e può portare a situazioni anche comiche.
"Sangue di rana” - disse Gino –“questo vino è color sangue di rana”. Gino era Luigi Veronelli, grande enogastronomo e delizioso scrittore, e il vino in questione, quello che aveva un colore così minaccioso, era il Costozza Rosato del Conte Alvise da Schio. A me sembrava rosa antico, forse un po’ più aranciato del normale, e mi faceva pensare, in modo un po’ irriverente, al Crodino, del quale andavo matto. Però se lo diceva Gino, che mi aveva letteralmente “adottato”, allora… Del resto la cosa più ovvia che ci si aspetta da un maestro è quella di potere imparare da lui. In questo Gino era molto bravo. Incosapevolmente. Era un continuo di citazioni colte e di “suggestioni”, come le chiamava lui, e per chi, come me, muoveva per pura passione i primi passi nel mondo del vino e del cibo, la cosa non poteva che apparire esaltante.
La terminologia del vino è uno degli aspetti più ostici da affrontare. Come in ogni settore tecnico è necessario usare delle parole adeguate, che si rifanno nella maggior parte dei casi a scienze quali la botanica, la chimica organica, la biologia e ad alcune branche particolari, come l’ampelografia, che studia specificamente la vite. Ma tutto questo, che è sicuramente scientifico e fa parte del programma di studio di coloro che vogliono diventare enologi o enotecnici, si fonde, a volte assai curiosamente, con dei termini che invece hanno a che vedere con aspetti assai più letterari ed umanistici. Questo accade quando si passa da una descrizione puramente tecnica, quantitativa, a quella delle sensazioni che si provano quando il vino lo si assaggia e lo si beve. E qui si scatenano i peggiori deliri solipsistici, che si esprimono con il riconoscimento di profumi improbabili e con l’esaltazione che si prova quando si riesce a condividere con pochi altri qualcosa che apprezziamo e capiamo solo noi.
Il passo ulteriore, quello di non ritorno, sarà l’iscrizione ad un corso specifico, uno di quelli organizzati in Italia prevalentemente dall’Associazione Italiana Sommeliers o da Slow Food, e che ad un profano potrebbero sembrare, di primo acchito, simili a strani riti pagani. E non mi sentirei di escludere che ci sia anche questo aspetto nella tecnica di roteare a lungo il bicchiere, quasi sempre inutilmente, o quanto meno eccessivamente, e nel guardare il colore alzandolo contro luce. Negli anni ho scoperto che soffiando leggermente con il naso nel liquido, e poi aspirando velocemente subito dopo, si ottiene un risultato assai migliore e molto meno scenografico di qualunque roteazione, se si devono sentire bene i profumi. Mentre il riflesso del vino su di una tovaglia bianca è molto più preciso di qualunque altra tecnica se si deve determinare il colore. Ma entrambe queste pratiche sono poco evidenti, quindi non servono per essere riconosciuti e ammirati come ineffabili esperti del liquido di Bacco.
In realtà per decidere di frequentare un corso per degustatori di vino, le motivazioni possono essere parecchie. C’è chi vuole imparare per poi fare l’opinion leader fra gli amici. C’è chi vuole solo passare del tempo. E c’è chi si è appena separato dopo un matrimonio o una storia sentimentale durata anni, e cerca un modo per poter conoscere gente nuova. Questi ultimi sono i più prevedibili, ma anche i più simpatici, a patto che non prendano troppo sul serio le cose, mentre nella prima categoria si nascondono gli individui con tendenze più che altro monomaniacali e quindi più pericolose.
Detto questo non si può negare che i corsi di questo genere siano stati nel recente passato, e siano in buona parte ancora, gettonatissimi, che vadano di moda e che hanno contribuito alla diffusione di una discreta infarinatura. Tenendo sempre presente che prendere la patente non significa saper guidare come un pilota di Formula 1. Certo è che la prima cosa da fare è quella di padroneggiare la terminologia tecnica, senza cadere nelle trappole della retorica autocompiaciuta, della gergalità e del “vinese”, lingua del tutto inventata ed impropria, che dilaga fra coloro che si avvicinano al variegato e multiforme mondo dell’enogastronomia. “All’olfattiva è terziario”, “La spina acida lo verticalizza”, “Resta sul frutto”. Traduzioni “I profumi sono determinati dall’invecchiamento”, “La componente di acidità, lo rende un po’ spigoloso”, “Non sembra poter evolvere bene, sotto il profilo olfattivo, e non va oltre toni di frutta fresca, giovanili e un po’ banali”. Ma non basta. Definire un vino “vinoso”, sembra una presa in giro. Invece con quel termine si indicano delle caratteristiche olfattive tipiche dei rossi giovani, determinate dall’estere che si forma a partire dall’acido succinico. Il succinato di etile, tanto per essere più chiari. Ma questa è chimica organica, e la “vinosità” ne è il pendant nel linguaggio sommelieristico. Di esempi simili ce ne potrebbero essere molti, e se gli esperti e gli appassionati di vino non riescono a considerare questi aspetti cum grano salis, il rischio è quello di esser presi per matti.
Non parliamo poi dei cosiddetti “riconoscimenti”, quei profumi di fiori, di frutta, di sostanze particolari, odorose o aromatiche, che dovrebbero aiutare a definire le caratteristiche salienti di un vino. A volte ottengono effetti esilaranti, altre volte rischiano di apparire come dei deliri. Una volta mi è capitato di sentire definire i profumi di un incolpevole Pigato di Albenga, come sentori di “elastico bruciato”, e devo confessare di aver fatto fatica a immaginare di che cosa odori un disastro simile. C’erano note affumicate, in quel vino, determinate dal breve invecchiamento in bottiglia, forse da elementi aromatici che evolvevano in quasi totale assenza di ossigeno, quindi in “riduzione” (che è il contrario dell’ossidazione). Una persona “normale” avrebbe detto “questo vino sa un po’ di chiuso, teniamolo un po’ nel bicchiere che quest’odore poi va via”. Cosa che si sarebbe verificata in pochi minuti. Invece no, era evidentemente un sentore di elastico bruciato, e c’era poco da eccepire. Penso anche all’orrore che potrebbe provocare in qualcuno sentir definire le note olfattive di un rosso invecchiato come: odore di “cesto di selvaggina morta”. È una delle definizioni più amate da un noto degustatore toscano con evidente spirito macabro. Più divertenti, quasi goliardiche, sono le definizioni di “cassapanca” o “scatola di sigari”, per alludere ai profumi di un rosso fatto maturare in barrique, o di “pipì di gatto”, per definire i tipici sentori un po’ selvatici di un Sauvignon. Pensate poi a cosa deve pensare un povero ignaro se, invitato a una cena con degli esperti, li vedrà entusiasmarsi per avere colto quel particolare sentore, magari proprio quello relativo alle minzioni feline, assaggiando un vino durante il pasto….
Ed eccoci tornati al sangue di rana dal quale eravamo partiti e del quale non ci siamo ancora liberati del tutto. Sembra l’inizio di una particolare fenomenologia dello spirito. E forse, con buona pace di Georg Friederich Hegel, lo è davvero.